L’importanza di riappropriarsi senza intermediazioni di un’eredità culturale straordinariamente ricca
Perché i preti
devono studiare il latino
Pubblichiamo stralci di una delle relazioni tenute dall’arcivescovo segretario della Congregazione per il Clero nel corso del convegno organizzato dal Pontificium Institutum Altioris Latinitatis alla Pontificia Università Salesiana e dedicato al cinquantesimo anniversario della costituzione apostolica «Veterum sapientia».
La seconda metà del Novecento ha segnato — e non solo a livello ecclesiale — uno spartiacque nella storia dell’uso della lingua latina. Tramontata già da secoli come strumento della comunicazione erudita, ha resistito nella scuola, come materia di studio nei programmi educativi di livello secondario superiore, e, nella Chiesa cattolica,
in generale, come mezzo di espressione della liturgia e tramite della trasmissione dei contenuti della fede e di un ampio patrimonio letterario che spazia dalla speculazione teo-filosofica al diritto, dalla mistica e dall’agiografia alla trattatistica sulle arti, alla musica e perfino alle scienze esatte e a quelle naturali.
Con il tempo, tuttavia, almeno sotto il profilo propagandistico, la lingua latina è finita per divenire, in massima parte, appannaggio sempre più caratteristico della formazione clericale nella Chiesa cattolica, al punto di ingenerare una spontanea, quanto forse inappropriata, identificazione tra la Chiesa romana e l’entità linguistica latina, che in essa ha trovato, in questa fase critica, un almeno apparente vigore.