ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 28 agosto 2017

La strategia aziendale di Bergoglio


L'AMMINISTRATORE DELEGATO          
                      
Non ci serve un papa che pensa da amministratore, ma un papa che custodisce la fede. La cosa che gli sta maggiormente a cuore è far sì che l’azienda resti competitiva, frutti utili, vale a dire che non perda quote di mercato? 
di Francesco Lamendola  


 
  
Una possibile chiave di lettura del “caso Bergoglio”, cioè di un papa che non si mostra affatto preoccupato di difendere il deposito della fede, anzi, si circonda di amici che l’hanno sempre avversata, e che infligge egli stesso, in continuazione, colpi di maglio a ciò che sta maggiormente a cuore al credente, generando confusione, smarrimento, angoscia, fra milioni e milioni di cattolici, è quella data, circa anno fa, dal giornalista Stefano Lorenzetto sul giornale informatico La Fede quotidiana (21 ottobre 2016):

Non è vero, come sostiene qualcuno, che il papa su alcuni temi come la sessualità faccia fughe in avanti o taccia. Anzi, leggendo le sue recenti dichiarazioni, è persino un restauratore ed ha usato espressioni anche più forti dei suoi predecessori. Piuttosto, e qui arrivo al punto della difesa dei principi non negoziabili, ritengo che il papa abbia scelto consapevolmente di non porli al centro della sua agenda per scelta, in quanto essi sono divisivi. Bergoglio non è sicuramente immune dalla ricerca del consenso e molte volta fa il piacione, però pensa da amministratore delegato della Chiesa con le sue strategie. Ritiene che insistendo sui valori non negoziabili, che spaccano, non avvicina i lontani ben sapendo che i fedeli, dal canto loro, non andranno via. In sintesi, ritiene di scegliere strategie che mirano ad avvicinare alla Chiesa chi non crede.

“Lente d’ingrandimento”

Riparazione


Dai messaggi di Nostra Signora apprendiamo il ruolo decisivo di tanti aspetti oggi trascurati della vita cristiana e che invece vanno riaffermati, rispolverati, riscoperti, rivissuti: l’Eucaristia, il Santo Rosario, la preghiera del cuore, i Sacramenti tra cui soprattutto la Confessione, la partecipazione frequente e attiva alla Santa Messa, il valore e la necessità della riparazione, il sacrificio e la penitenza per purificarsi ed espiare i propri altrui peccati…

La Fede prima del capovolgimento

I Novissimi, più nuovi del nuovo 

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Un’amica mi sconsiglia, m’invita a lasciar perdere. «Che t’importa, dai…». Aggiunge, non senza un po’ di logica: «Con il vento che tira, se qualcuno ti definisce cattolico va a finire che lo quereli per diffamazione, no?». Tuttavia, nel marasma generale, sento necessario ogni contributo alla chiarezza. E siccome gira voce (infondata e smentita, anche da molte visioni) che l’Inferno sia vuoto, che il Purgatorio attenda soltanto il direttore Deotto e me, che il Paradiso sia più affollato delle spiagge a Ferragosto e ci si possa imbattere in Martini (il quasipapa) che sbevazza aperitivi con Nietzsche e Freud, che il Limbo non esista, che l’Estrema Unzione non valga più come estrema, che le Messe di suffragio risuonino superflue e infatti sono diventate un’ammucchiata nominativa, che… che… che… Insomma, il pezzo è facile, esplicativo; non ho che da copiare da un foglio ingiallito addormentato qui sullo scrittoio. Attenzione: contiene materiale scottante, attualmente classificato “Top Secret”.

Come sempre in malafede?

Summorum Pontificum. Si radunano gli avvoltoi?


Avete presente quando abbiamo denunciato che si era in procinto di scagliare un attacco al Summorum PontificumMolti non ci credevano. Possibile che si arrivi a tanto? Ebbene siori e siore, il menù di oggi propone proprio questo. L’ora X è scattata, l’assalto finale, l’ultima spiaggia degli ottuagenari per sentirsi vincenti.

Il segnale lo ha lanciato Bergoglio, durante un discorso alla settimana liturgica nazionale. “La riforma liturgica è irreversibile”, dice il Papa, anzi va portata a termine. Dunque quella che è universalmente percepita come una riforma fallimentare che ha allontanato i cattolici dalla Messa diventa “irreversibile” e non si può proprio ridiscuterne i canoni. Eh no amici miei, ha dato “frutti indiscutibilmente benefici”. Lo si afferma con “autorità magisteriale”. Se i fatti contraddicono la teoria, tanto peggio per i fatti. O no?

Esiste dunque la verità


IL FASCINO DELLA LIBERTA'

Il fascino indistinto della libertà. L’idolatria richiama l’adorazione esaltata il fanatismo, l’ammirazione sfrenata per qualcosa che non è degno, un idolo, un feticcio, un semplice simulacro, qualcosa di falso e di ingannevole 
di Roberto Pecchioli  


Il viandante stremato che percorre un’interminabile pista assolata nel deserto si sorprende del ristoro inatteso offerto da una fontana e da un albero ombroso scorti all’improvviso. Questo ci è capitato, navigando su siti di informazione, alla lettura di un ampio resoconto dell’omelia pronunciata dal vescovo di San Sebastiàn, monsignor Josè Ignacio Munilla, pubblicata su uno dei maggiori quotidiani spagnoli, il monarchico ABC.  Il titolo è l’esatto incipit del discorso: “Considero un paradosso idolatrare la libertà in un mondo pieno di gente con dipendenze.” La traduzione italiana “persona con dipendenza” non restituisce nella nostra lingua la pregnanza del termine “adicto”, l’aggettivo che in castigliano designa la condizione di chi è sottomesso a uno stile di vita, una condotta, un prodotto o una pulsione che si è impadronita di lui, e di cui non è in grado di liberarsi. Il più classico esempio è quello del tossicodipendente (drogadicto, in spagnolo), o dell’alcolista.
Sembra paradossale denunciare una dipendenza dalla libertà, ma il prelato basco ha colto nel segno. E’ davvero incomprensibile, ha affermato Munilla ai suoi fedeli il giorno dell’Assunzione, 15 agosto, ormai per tutti solo ferragosto, culmine e simbolo delle ferie e delle vacanze, che sia idolatrata la libertà proprio da coloro che sono dipendenti da qualcosa, ovvero sono schiavi. Schiavi è vocabolo forte, che costringe a riflettere, una scossa che proviene, finalmente, da un eminente uomo di chiesa. Le parole hanno sempre un peso quando fioriscono sulle labbra di uomini abituati a sceglierle con cura. Ecco perché sorprende l’uso dell’altra parola forte con cui il presule ha introdotto la sua riflessione dal pulpito, idolatria.

Passo dopo passo..

USA: SCUOLA CATTOLICA RIMUOVE LE STATUE RELIGIOSE – MADONNA E BAMBINO INCLUSI – PER ESSERE PIÙ “INCLUSIVA”.
Una scuola cattolica negli Stati Uniti ha deciso di rimuovere tutte le statue religiose, e anche icone e immagini di minor grandezza, così da diventare più inclusiva. Naturalmente un gesto del genere ha provocato reazioni da parte di alcuni genitori cattolici. Gli oggetti rimossi sono stati messi in un deposito. La notizia è stata data dal Marin Independent Journal. La scuola interessata è un istituto domenicano, intitolato a San Domenico.
Shannon Fitzpatrick ha scritto una mail al Comitato direttivo della scuola: “Articolare un fondamento inclusivo – ha scritto – appare con il significato di lasciar cadere oltre 167 anni di tradizione di San Domenico come scuola cattolica e di avere paura, e di vergognarsi di celebrare il proprio patrimonio e ciò in cui si crede”, ha scritto Fitzpatrick, il cui figlio, di otto anni, frequenta l’istituto.

"Mysterium tremendum"

PERCHE’ OCCORRE TORNARE A MESSE DOVE I PRETI PARLINO MENO E CELEBRINO DI PIU’


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“I sentimenti del timore e del sacro sono i sentimenti che palpiterebbero in noi, e con forte intensità, se avessimo la visione della Maestà di Dio. Nella misura in cui ci rendiamo conto della presenza di Dio, dobbiamo avvertirli. Se non li avvertiamo, è perché non percepiamo che egli è presente». Così il beato cardinale John Henry Newman mette il cattolico medio di fronte ad una difficoltà inconfessabile: la (malcelata) distrazione che lo avvolge durante il rito della Messa. Con il suo secondo saggio sulla performance del rito romano, Luigi Martinelli rimanda il lettore a ciò che il rito liturgico per sua essenza dovrebbe essere («mysterium tremendum, shock, vertigine, pericolo») se solo coloro che concordano sulla diagnosi di una liturgia cattolica impoverita da una pesante logomachia non dissentissero sulle terapie da approntare. Il merito di Martinelli è anche questo, aver squadernato, padroneggiando la più qualificata letteratura scientifica, un fatto notorio ma silenziato: l’attuazione della riforma non ha dato gli effetti sperati. Non è riuscita a far passare lo “spirito della liturgia”, o lo ha fatto solo in minima parte. Non ha educato al senso religioso. Dopo Le forme del sacro (con entusiastica prefazione di monsignor Nicola Bux) lo studioso di teatro Luigi Martinelli torna dunque ad affrontare il tema dell’efficacia del rito liturgico. 
Lo fa con un saggio in uscita in questi giorni, Missa in scena (Cavinato Editore, 2017, 359 pagine) titolo che, giocando con le parole, accosta rito e teatro per raccogliere suggestioni e possibili sviluppi pastorali dall’osmosi dei due mondi. Tempi.it lo ha incontrato.
Copertina libro L.MartinelliMartinelli, ai mali della liturgia riformata lei non propone il rimedio di un ritorno all’antico, ma insiste sulla presa di coscienza della vera essenza dell’atto di culto, che concepito non adeguatamente rischia di perdere la sua efficacia. È così?
Certo. Non sarà la sostituzione del Vetus Ordo al Novus Ordo la soluzione che riporterà la performatività rituale, la centralità del sacrificio e la “pericolosità” del rito nella liturgia cattolica postconciliare. Credo però che il Novus Ordo debba riformarsi ulteriormente se vuole tornare ad essere un evento incisivo e determinante nella vita spirituale dei fedeli cattolici, attingendo maggiormente agli elementi rituali tradizionali della liturgia cattolica. Deve riscoprire la centralità del corpo, la forza dei simboli, l’efficacia della lingua sacra, l’importanza di una musica e di un canto adatti, ma soprattutto deve ritrovare il primato della forma sul contenuto, riscoprendo l’importanza della ri-presentazione performativa sacrificale. Urge attivare seri procedimenti di riflessione sull’efficacia dell’ars celebrandi.
Anche se non auspica un semplice ritorno al passato, è però vero che lei rileva alcune criticità performative nella Messa celebrata secondo la forma ordinaria del rito romano. Quali esattamente?
La riforma liturgica degli anni Sessanta ha riformato il rito riferendosi quasi esclusivamente al legòmenon, cioè alle parole, ai testi, alle traduzioni, alle semplificazioni linguistiche e comunicative. Tuttavia il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti” non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, ma solo più povere. L’attuale rito è caratterizzato da un certo razionalismo, che si traduce nell’eccessivo verbalismo, nella sovraesposizione fonetica. In esso hanno sempre più importanza le parole, i discorsi, le esortazioni, i ragionamenti mentre le azioni i gesti e i movimenti sono ridimensionati. Penso alle genuflessioni, agli inchini, alle prostrazioni, all’innalzamento degli occhi e delle braccia, ai segni di croce, ai baci; a tutto ciò che il Servo di Dio don Eugenio Bernardi definiva come attività che «agiscono sulle facoltà interiori aumentandone le potenzialità». Il rito liturgico postconciliare non è più vissuto come esperienza ma come conoscenza, è divenuto un fatto cognitivo più che un fatto performativo.
E la famosa “actuosa partecipatio” alla liturgia, quella “partecipazione attiva” che deve coinvolgere i fedeli e con cui nel postconcilio sono cresciuti i sacerdoti di tutto il mondo?
È, appunto, soltanto un mito. La cosiddetta “partecipazione attiva” coinvolge i fedeli solo a livello razionale, e ciò fa sì che sia la preghiera a soffrirne, perché richiede più sforzo mentale (da qui la distrazione e quindi la noia). Su questo dato, che è empiricamente sperimentabile, sono d’accordo praticamente tutti. Potrei citare gli studi dei più stimati liturgisti contemporanei, da Roberto Tagliaferri ad Aldo Natale Terrin, da Loris dalla Pietra a Jakob Baumgartner, come quelli di illustri esponenti del clero cosiddetto progressista. Valutando gli esiti della riforma, per esempio, perfino il primate belga Godfried Danneels ha lamentato una liturgia «esclusivamente orientata verso l’intelletto», in cui «bisogna ammettere che la lingua e gli orecchi sono i soli organi utilizzati nella liturgia».
In effetti nella prospettiva del suo saggio appaiono molto interessanti le parole del cardinal Dannels, soprattutto se si pensa che sono pronunciate da chi che ha parlato pubblicamente e con una certa soddisfazione della “mafia di San Gallo”.
Decisamente. Sbaglierebbe chi pensasse che solo Benedetto XVI indicasse e si addolorasse per i gravi problemi liturgici attuali. D’altronde è ancora il cardinale Dannels a riconoscere che – sono ancora parole sue – «la liturgia non è né il luogo e né il momento adatto per la catechesi». Ripeto: il rito è stato usato come un contenitore di dottrine e di verità ortodosse a dispetto della sua specifica vocazione di produrre esperienza religiosa. La riforma liturgica sembra aver promosso una liquefazione dei riti per elargire i contenuti. Per comunicare utilizza quasi esclusivamente la parola. È un rito verbale in cui vi è strutturalmente una mortificazione e un impoverimento del rituale, la sproporzione tra la durata della liturgia della parola e quella della liturgia eucaristica, del resto, è lì a dimostrarlo. Non viene lasciato tempo sufficiente all’immaginazione, all’elemento affettivo, all’emozione, alla bellezza, al mistero.
Nel suo saggio lei riporta riflessioni sul postconcilio del cardinal Martini che potrebbero interrogare molti. Ad esempio questa: «Tutto doveva essere chiaro, intellegibile, le preghiere dovevano essere intese dalla gente, tutto doveva essere regolato dalle leggi della comunicazione sociale, ma l’uomo ha una dimensione misteriosa, ci sono delle esplosioni interne della fede che nella liturgia precedente, attraverso il mistero, erano tutte meglio presenti». Se sono tutti d’accordo sulla diagnosi, se cioè tutte le diverse sensibilità ecclesiali indicano gli stessi problemi di fondo, come mai il rito cattolico oggi conosce la sorte da lei descritta?
Perché il postconcilio, nel suo mood anarchico di fondo, non è stato all’altezza del Concilio. In altre parole perché i sostenitori della riforma liturgica se da una parte ne riconoscono i limiti dall’altra continuano a sbagliare la terapia. Per risolvere i problemi vorrebbero andare ulteriormente oltre la riforma del Vatinano II, con esiti e proposte incerte, multiformi, differenziate, sincretiste, iper-creative, postmoderne. Non è un caso che si vociferi sull’esistenza di una commissione mista di cattolici, luterani e anglicani intenta a mettere a punto una messa a cui far partecipare i fedeli di tutte e tre le confessioni. Come scrive Roberto Tagliaferri, docente di antropologia e liturgia presso l’Istituto di Liturgia Pastorale di S.Giustina a Padova, a oltre 50 anni dal Concilio Vaticano II «la questione della forma rituale in quanto performance rimane un problema ecclesiale assolutamente disatteso». Occorrerebbe una decisa presa di posizione, ma nella giusta direzione.
Si è chiesto da dove venga quell’eccesso di verbalismo che la sua analisi descrive come “soffocante” il rito cattolico?
Viene – lo dico con dolore – da una sfiducia nel rito. È questo il motivo per cui si tende a spiegare, legittimare e persino “scusare” il rito con l’ausilio delle parole: non si crede più nell’efficacia dell’azione rituale in quanto tale. Perfino nella splendida liturgia della veglia pasquale il sacerdote spiega a profusione l’autoevidente significato dell’accensione e spegnimento delle candele. Il cardinal Kasper, che non è esattamente un lefebvriano, scriveva che «abbiamo preti che parlano troppo ma celebrano poco». L’ossessione di dare significato ai riti distrugge l’azione liturgica nella sua essenza pragmatica, e soprattutto ne limita il potenziale mistagogico di introdurre i fedeli in una nuova esperienza religiosa. Per Francois Cassingena-Trevedy, monaco benedettino e liturgista, i sacramenti, e di conseguenza la liturgia, non dipendono dalla sfera dell’intellettuale ma coinvolgono l’ambito fisico. Operano cioè un’assunzione integrale del sensibile, perché – molto semplicemente – si inseriscono nell’“economia dell’incarnazione”.
Lei sostiene che col sostegno epistemologico del razionalismo, una certa teologia abbia spezzato il legame tra rito ed evento così come ce l’ha insegnato la Bibbia e la tradizione mistagogica. Quale sarebbe allora la vera funzione del rito?
Rispondo con una domanda: come fare a trasmettere quel senso di gravità, di pericolosità, di vertigine tipiche di un rito sacrificale (come dovrebbe essere la messa) solo attraverso le parole? Il rito è e deve tornare ad essere “pericoloso”, perché è trasformativo della realtà e delle persone, perché ribalta la vita normale trasportandola in un’altra dimensione. Lo smarrimento dei linguaggi del corpo, dei segni e dei simboli all’interno della liturgia ha reso il rito più rassicurante, tranquillizzante, lo ha ammorbidito. Ma un rito che non sia, appunto, pericoloso, abitato da vertigine e mistero, non solo diventa noioso, ma rinuncia totalmente alla sua prerogativa di innovazione del mondo. È dalla natura “traumatica” che deriva il fascino del rito, un gioco d’azzardo in cui scommettere tutto per ritrovare un mondo diverso, un “io” diverso.
In Missa in scena cita spesso antropologi come Victor Turner, massmediologi come McLuhan.Un ruolo di riguardo però lo riserva al grande commediografo Antonin Artaud. Qual è il ruolo specifico del teatro nel suo studio sulla liturgia?
Anche il teatro occidentale per un certo periodo della sua storia, prevalentemente dall’umanesimo fino al teatro borghese ottocentesco, aveva ripiegato sul razionalismo, ma nel Novecento, grazie a maestri come Artaud, Copeau, Mejerchol’d, Grotowski, Barba e molti altri, ha riscoperto le sue origini rituali valorizzando il ruolo del corpo, dei simboli, degli attori. Si è riscoperto come evento tridimensionale, in cui parola, corpo e azione si amalgamano tra loro per permettere agli spettatori di vivere un’esperienza irripetibile nell’hic et nunc. La liturgia, proprio come ha fatto il teatro, dovrebbe dunque tornare a mettere in primo piano la dimensione scenica rituale. L’operazione è possibile solo se si restituisce al rito il suo linguaggio proprio, che è “pragmatico”. Ha ragione Tagliaferri a proporre alla liturgia il Teatro della Crudeltà di Artaud come esempio per rinnovarsi, per emanciparsi da una deriva che ha reso il rito sempre più predica, parenesi, didascalia, lettura biblica. Un ripetuto invito all’edificazione e niente più.
Nel precedente saggio aveva analizzato la ritualità cattolica comparando sinotticamente la celebrazione della Messa secondo le due forme del rito romano (ordinaria e straordinaria). Il punto di vista era quella di un regista teatrale, il quale, dal banco di una chiesa invece che dal più usuale golfo mistico, assistendo alle due forme del rito, esamina criticamente ciò che vede e che vive. Il risultato vedeva il rito antico vittorioso. È ancora di questo parere?
Ne sono sempre più convinto, pur restando uno strenuo sostenitore del biformalismo liturgico. Un grande esempio di come la liturgia può essere in grado di generare trascendenza attraverso i linguaggi del simbolo e della gestualità rituale ci viene dato dalla Messa celebrata secondo la forma straordinaria del rito romano. Forma riportata in auge dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. In essa, grazie all’utilizzo della lingua sacra, la parola viene liberata dall’urgenza di significare; i corpi del celebrante e dei fedeli mettono in atto una gamma notevole di gesti; il simbolo ha un grande spazio; il canto gregoriano, che la Costituzione liturgica del Vaticano II raccomandava, favorisce la contemplazione e l’apertura al trascendente; il silenzio – indispensabile per l’ascolto del linguaggio divino come non smette di ricordarci il prefetto della congregazione per il Culto divino cardinal Sarah – è “attivo”, svolgendosi infatti nei momenti del rito in cui l’azione liturgica si dispiega in tutta la sua pregnanza di significante e di significato. Tutto questo genera l’esperienza del sacro, un’esperienza che l’uomo contemporaneo ricerca disperatamente, e che se non trova nel rito cattolico cercherà altrove, anche in un altrove antitetico al cristianesimo.
26 agosto 2017, Valerio Pece
https://benedettoxviblog.wordpress.com/2017/08/27/perche-occorre-tornare-a-messe-dove-i-preti-parlino-meno-e-celebrino-di-piu/

Seminaristi tedeschi espulsi se partecipano alla Messa in latino

Nel seminario dell'arcidiocesi di Colonia, Germania, gli studenti sono espulsi se si viene a sapere che hanno partecipato alla Messa tradizionale in latino, ha detto il filologo tedesco Heinz-Lothar Barth al suo pubblico durante uno stage nel monastero cistercense di Rito tradizionale di Vyšší Brod (Hohenfurth), Repubblica Ceca, il 5 luglio.

Il seminario dell'arcidiocesi di colonia si trova a Bonn. Secondo Barth, un crescente numero di studenti di teologia frequentano la messa diocesana in latino a Bonn. Ma hanno paura che si venga a sapere, perché ciò significherebbe "la fine della loro formazione".

Foto: © Carlos Ramalhete, CC BY-NC#newsQzpzjupgve

La tradizione Cattolica fa crescere le parrocchie

Nel 2014 padre Joseph Illo divenne amministratore della parrocchia Stella Maris di San Francisco, California (USA). Da allora, la partecipazione alla Messa e il numero dei parrocchiani è aumentate del dieci percento ogni anno.

Secondo cruxnow.com, la parrocchia fiorisce a causa di un "potente legame con le pratiche Cattoliche tradizionali". Le messe sono velebrate in inglese e latino, e prevedono canto gregoriano e polifonia. La Comunione è distribuita alla balaustra. In Quaresima, la Messa è celebrata "ad orientem". C' è anche ogni giorno una Messa tradizionale in latino.

Tre parrocchiani sono entrati nel seminario arcidiocesano e un quarto si è unito ai Domenicani.

Foto: Star of the Sea Parish, #newsVbjfbicgac

Abate Rosmini "non si può applicare il rimedio d’introdurre nelle Chiese lingue diverse da quelle che vi si usano consacrate dall’uso dei secoli"

Contro il rito "tridentino" cioè il rito romano antico, che avrebbe addirittura causato "danni" alla Chiesa cattolica si chiama a testimone l'abate Rosmini.

Vero che nelle Cinque piaghe della Chiesa segnalò il problema del modo eccessivamente passivo con cui i fedeli assistevano alla liturgia ma non per effetto della liturgia e non tanto o esclusivamente per effetto della lingua latina con cui il rito si celebrava, ma centrando il problema sulla formazione e istruzione dei fedeli. 

(Nota del Redattore: Joseph Ratzinger/Benedetto XVI ha spiegato molto bene questo concetto di teologia liturgica: " - Il Concilio Vaticano II ha fissato alcuni principi fondamentali.
In primo luogo il Concilio ha dato una definizione di che cos'è la liturgia e questa definizione fornisce un metro di giudizio 

per ogni celebrazione liturgica.
Se si ignorano queste regole essenziali e si accantonano le "
normae generales" formulate nei numeri 34-36 della Costituzione "De Sacra Liturgia", allora si che si disubbidisce al Concilio!
È alla luce di quei criteri che le celebrazioni liturgiche debbono essere giudicate, siano esse basate sui vecchi o sui nuovi testi.
Cfr. MiL QUI )

Problema che al tempo del Novus Ordo si è addirittura dilatato.

Comunque Rosmini al riguardo scrive queste parole: "Quantunque noi abbiamo esposto lo svantaggio proveniente dall’esser cessata nel popolo l’intelligenza della lingua latina, tuttavia è alieno dal nostro animo il pensiero che convenga tradurre la sacra liturgia nelle lingue volgari". 

E prosegue: "Non ho qui enumerati tutti i vantaggi delle lingue antiche, né tutti gli svantaggi delle moderne; ma quelli che ho accennato bastano a dimostrar pienamente che ad ovviare il danno della separazione additata del clero dal popolo nelle sacre funzioni non si può applicare il rimedio d’introdurre nelle Chiese lingue diverse da quelle che vi si usano consacrate dall’uso dei secoli, che anzi questo rimedio, come noi dicevamo, sarebbe peggiore del male".
PM
( da un social )
Pubblicato da Andrea Carradori 

Hai voglia a vigilare!?

Gesù calpestato tra Forza Nuova e il prete "rosso"
Tra le inaccettabili minacce di Forza Nuova a messa e le parole del prete rosso che accusa di essere fascista chi non la pensa come lui sui migranti, l'unico ad essere oltraggiato è stato Gesù: perchè un attacco squadrista in chiesa è un precedente pericoloso, ma anche perché se un parroco definisce l'abortista Emma Bonino "uno dei pochi politici cristiani", vigilare è ormai inutile.

domenica 27 agosto 2017

Il potere di legare e sciogliere


SE EGLI APRE NESSUNO CHIUDERA'                
 
«Se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire». Ciò che sta accadendo nella Chiesa è assai grave molti fedeli se ne stanno allontanando sconsolati perché non riconoscono più la voce dei pastori 
di Francesco Lamendola  


  
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casati di Giuda. Se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire. Gli porrò sulla spalla la chiave della casata di Davide: così il passo del Libro di Isaia, 22, 21-22), che è stato recitato nelle chiese, secondo la liturgia della santa Messa festiva, domenica 27 agosto 2017: laddove, nella figura di Eliakin, bisogna vedere un precursore del Messia, l’Unto del Signore, e, nella casa di Davide, il popolo di Dio della Nuova Alleanza, cioè la futura Chiesa. In particolare, nell’azione di aprire e chiudere la porta della casata di Davide, sembra prefigurata la potestà petrina di legare e sciogliere i peccati, secondo le parole di Gesù Cristo (in Mt. 16, 18-19): E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli.
Non si può negare che vi è qualcosa di remoto, quasi un sapore alieno, in queste parole, in questo linguaggio, rispetto allo stile omiletico della Chiesa dei nostri giorni, specialmente sotto il pontificato di papa Francesco. E non è solo questione di forma o di stile, ma proprio di sostanza. I concetti di aprire e chiudere la porta, di legare e sciogliere i peccati, cioè di rimetterli o non rimetterli, sembrano appartenere a un altro universo intellettuale e spirituale, e, che Dio ci perdoni, quasi a un’altra religione, a un altro modo d’intendere il rapporto fra l’umano e il divino. 

Il bene della Chiesa in contrasto con l’autorità della Chiesa..

Quel vescovo che preferì morire scomunicato



Marcel Lefebvre nacque nel 1905, terzo di otto figli, in una famiglia tradizionalmente e profondamente cattolica, venne ordinato sacerdote nel 1929 e consacrato vescovo nel 1947.
La sua formazione cattolica, basata sulla profonda religiosità familiare, fu totalmente fondata sulla centralità di Roma e del Papa: entrambi fattori portanti della vera cattolicità. Impensabile, per Mons. Lefebvre, essere cattolici prescindendo dal Papa e dalla Città Eterna; secondo la volontà di Dio: il primo Vicario di Cristo, la seconda centro della Cristianità e della cattolicità.

Quando, in occasione del concilio Vaticano II, Mons. Lefebvre si rese conto che la cattolicità correva il rischio di subire una deviazione modernista e protestante, si adoperò per cercare di correggere le tendenze devianti, insieme ad altri Padri conciliari, senza tuttavia riuscire ad ottenere i risultati sperati. La chiusura del Concilio e le riforme che ne seguirono lo indussero ad assumere delle iniziative per la salvaguardia della dottrina e della liturgia cattoliche.
Con l’approvazione preventiva del vescovo del luogo, ratificata dalle autorità romane, fondò in Svizzera un seminario che fosse in grado di mantenere vivo il vero sacerdozio cattolico e perpetuare l’insegnamento della Chiesa di sempre.

Il contrasto tra la volontà innovatrice delle autorità romane e il suo convincimento tradizionale, non tardarono a porre Mons. Lefebvre in una situazione di estremo disagio. Richiesto di porre fine alla formazione e all’ordinazione di sacerdoti cattolici non in linea con le innovazioni, egli si vide costretto a disobbedire a quella Roma e a quel Papa che per lui costituivano un imprescindibile riferimento di principio.

Il loro ego


PRENDERSI GIOCO DI DIO
La "Neochiesa" e la combriccola buonista di preti e teologi dove Dio diventa lo specchio della loro vanità e superbia, del loro infinito narcisismo: non credono in un Dio trascendente, ma in un dio che coincide con il loro ego 
di Francesco Lamendola  
  
 
  
La neochiesa ha smesso di parlare dell’Inferno. Niente di strano: ha smesso di parlare della vita eterna, quindi anche del Paradiso; e, soprattutto, del Giudizio. C’è una ragione per ciascuna di queste omissioni. Parlare dell’Inferno significa parlare del peccato; e il peccato è l’allontanamento dell’uomo da Dio. Ma la neochiesa parte dall’assunto che il “popolo di Dio” è in marcia; verso dove? Verso il Regno di Dio, ovviamente; e già qui, in questa vita terrena. Il concetto non sarebbe del tutto sbagliato, se non muovesse da un sottinteso che non è cattolico: che il Regno di Dio sia di questo mondo. Di fatto, esso incomincia, come pallida prefigurazione, in questo mondo, ogni volta che si compie il miracolo della grazia di Dio; ogni volta che un’anima ne è toccata; ogni volta che si rinnova il Sacrificio eucaristico e che un povero, fragile, misero essere umano, sprofondato nella palude dell’egoismo, delle passioni e della inconsapevolezza, infiammato e vivificato dallo Spirito di Dio, si erge in piedi, guarda in alto e si trasforma in un operaio del Signore. Ma il suo compimento non avviene quaggiù: il mio Regno non è di questo mondo, ha detto Gesù, rispondendo a una precisa domanda del procuratore romano, Ponzio Pilato. Stava per morire. Di lì a poche ore, sarebbe spirato sulla croce; e diceva: Il mio Regno non è di questo mondo. Ma i teologi progressisti e i preti di sinistra, i Dossetti, i Turoldo, i Gallo, curiosamente in sintonia con i cardinali e i vescovi massoni, come i Martini, non se ne son dati per intesi; per loro, il Regno di Dio deve realizzarsi in questo mondo; e ciò che essi hanno in mente, quando si parla del Regno di Dio, è, a tutti gli effetti, il regno degli uomini: il paradiso in terra realizzato dall’uomo per se stesso

Anche la papolatria è un peccato


DIATRIBA SULLA FIGURA DI PAPA BERGOGLIO

Mi permetto di entrare nell’argomento tanto discusso in questi giorni su il nostro quotidiano “l’Arena” “Pro o contro Papa Bergoglio”, tra il giornalista Stefano Lorenzetto e don Roberto Vinco per un mio parere che è condiviso da molti ormai.

Stefano Lorenzetto, pur dimostrando rispetto per la figura del Papa, tuttavia non ha potuto nascondere le sue perplessità davanti a certi suoi comportamenti o discorsi, tutti per lo più orientati a una concezione immanentista e politica della vita dell’uomo, quando invece compito del Papa è essenzialmente quello di invitare i fedeli ad alzare lo sguardo al Cielo, perché alla fine, volenti o nolenti, la nostra vera e definitiva dimora, come diceva anche San Paolo, è nei Cieli, e questo per la Chiesa è compito primordiale, senza trascurare gli altri.

François..


CATTOLICI FRANCESI SU PAPA FRANCESCO E IL SUO IMMIGRAZIONISMO


“Becchino dell’Europa?”

“Nel nome di una sua propria concezione  del dogma ma senza dubbio chiaramente destinata a sedurre il pubblico del terzo mondo, specie africano, che ormai  costituisce il grosso dei suoi fedeli, il Papa si arroga il diritto di intimare all’Europa una sorta di  ordine “morale” di  apertura totale e senza condizioni delle sue frontiere e delle sue nazionalità a chiunque voglia venire a installarvisi.   E ciò, quali che siano le conseguenze sociali, economiche e di sicurezza d’una immigrazione di massa fuori controllo. Ci si domanda se questo Papa argentino vuol salvare  la Chiesa in Africa o in Sudamerica facendosi il becchino dell’Europa” (Pierre Lellouche)

Un dubbio di fatto

http://www.rivelazioni.com/immagini_animate/3d/3d_005.shtml

BERGOGLIO: UN'ELEZIONE A NULLITÀ VARIABILE?



In un articolo da poco apparso su Una Vox – ma che parrebbe scritto nel 2015, a giudicare da un riferimento temporale ivi contenuto - don Francesco Cupello critica la tesi di Antonio Socci sull’invalidità dell’elezione di Bergoglio sia per mancanza di prove, sia dal punto di vista giuridico: a suo dire, infatti, anche a voler dare per dimostrata la presenza dell’ormai celebre scheda in più, l’invalidità dipenderebbe dall’incidenza della scheda sul risultato dello scrutinio.

L’Autore non mi è altrimenti noto, certo per mia mancanza, ma temo proprio che questa tesi riveli scarsa dimestichezza con le norme che regolano le elezioni canoniche.
Intanto, il n. 76 della Universi Dominici Gregis dichiara nulla l’elezione che sia avvenuta in maniera difforme da quanto stabilito nelle norme di procedura, senza ulteriori distinguo; inoltre, il can. 173 §3 commina la nullità a tutte le votazioni, se il numero delle schede è superiore a quello degli elettori, e UDG 68 estende la regola al caso inverso, mentre il n. 69 fa salve le due schede attaccate. In nessun caso e da nessuna parte si trova la minima traccia di un distinguo secondo il risultato della votazione. Men che meno, potrei aggiungere, di un distinguo che guardi al margine dei voti con cui Bergoglio sarebbe stato eletto, dato che, a tacer d’altro, UDG 69 stabilisce con precisione quando le due schede attaccate corrispondano ad un voto valido e quando no.
Ma non è tutto, purtroppo.

Timori infondati?

Papa Francesco e la liturgia: timori infondati e silenzi pesanti sulla riforma di Benedetto XVI
In un importante discorso ai partecipanti alla Settimana liturgica nazionale, il Papa ha affermato che "la riforma liturgica è irreversibile". C'è chi si è spaventato vedendovi una legittimazione degli abusi. Timori senza fondamento ma nel cammino della riforma c’è anche il motu proprio Summorum Pontificum: anch'esso partecipa della “irreversibilità” dato che ha creato una nuova situazione liturgica attualmente operante che non può essere taciuta. Perché il Papa non ne ha accennato nel suo discorso?

Siamo di nuovo a quel punto?

La fede del Papa

Nel 1968, mentre tanti cattolici manifestavano contro di lui, Paolo VI proclamò davanti al mondo il suo Credo. Era in gioco la verità della fede. Siamo di nuovo a quel punto?


La confessione di Pietro a Cesarea di Filippo “Tu sei il messia, il figlio del Dio vivente” è stata il presupposto affinché Gesù facesse di Simone, figlio di Giona, la pietra sulla quale edificare la sua Chiesa. Alla professione di fede dell’Apostolo, Gesù risponde con la vocazione unica di Pietro.

Considerando questo, emerge con chiarezza quale significato fondamentale avesse la fede di Pietro per la Chiesa nascente. Ciò vale naturalmente in modo analogo per il successore di Pietro, il papa. Anche il papa è prima di tutto un “uditore della parola” (K. Rahner), un credente, e solo come tale può essere garante e maestro della fede per la Chiesa. Anche in quanto maestro e pastore supremo, egli non si trova di fronte alla Chiesa – o persino al di sopra di essa. Benché capo visibile della Chiesa, il papa è membro dell’unico corpo, in connessione organica con esso.

Se le cose stanno così, diventa comprensibile l’interesse vitale della Chiesa nell’assicurarsi della genuinità e autenticità della fede di quell’uomo che è il successore del principe degli apostoli, Pietro, e portatore del suo potere.

Proprio queste riflessioni portarono all’usanza, conosciuta già dalla fine del V secolo, che il neoeletto vescovo di Roma faccia conoscere la sua professione di fede.

sabato 26 agosto 2017

Ave Maris stella

"E UNA LUCE APPARVE NELLE TENEBRE": AVE O MARIA, STELLA DEL MATTINO!


E' nelle ore più fredde della notte (quella per cui la Chiesa e il mondo stanno passando oggi) che l’alba si avvicina. Con gli articoli di questo canale e del nostro sito tempidimaria.com desideriamo parlare di una grande speranza, anticipata da santi come il Montfort ormai tre secoli fa, confermata da mistici e profeti, attestata dai dati di fatto: la possente irruzione della Madre celeste sulla scena della storia umana.

IL MONDO.

2017, cento anni dalle apparizioni di Fatima, un mondo superbo, confuso e decadente. Questo è il panorama che si presenta davanti ai nostri occhi. Una situazione sconfortante in cui è facile scoraggiarsi e rimanere disorientati per i cattolici fedeli al Vangelo e che cercano di condurre una buona vita cristiana. Ma un senso di inquietudine, di dissoluzione sfiora anche i non credenti e invade pure l’intimo di quelle persone che usano la religione come l’aspirina – una volta ogni tanto senza esagerare.

Vidérunt me, et movérunt cápita sua (Ps.108:24)

CONSACRARE ANCORA LA RUSSIA?_Una nuova prospettiva...

Nell’apparizione del luglio 1917 la Vergine del Rosario di Fatima aveva predetto: « Verrò a chiedere la consacrazione della Russia ». La richiesta fu esplicitata IL 13 GIUGNO 1929. Lucia, ormai religiosa professa tra le religiose di S. Dorotea, si trovava in convento a Tuy, in Spagna. In seguito ad una grandiosa visione della SS. Trinità, la Vergine Maria che era presente prese la parola e disse alla veggente:

« È arrivato il momento in cui Dio chiede che il Santo Padre faccia, in unione con tutti i vescovi del mondo, la consacrazione della Russia al mio Cuore Immacolato, promettendo di salvarla con questo mezzo. Sono tante le anime che la giustizia di Dio condanna per i peccati commessi contro di me, che vengo a chiedere riparazione: sacrificati per questa intenzione e prega » (2).

Nel corso degli anni, dal momento in cui la richiesta della Consacrazione della Russia fu fatta pervenire ai Pontefici, questi la reiterarono in varie occasioni con tentativi che non soddisfecero, però, le modalità richieste dalla Madonna.

Da parte degli studiosi di Fatima è dibattuta la questione se la consacrazione fatta da Giovanni Paolo II nel 1984 abbia ottemperato a tutte le condizioni poste dalla Vergine SS. o lo abbia fatto solo parzialmente o non lo abbia fatto per nulla e se quindi quella consacrazione è da considerarsi quella definitiva o bisogna aspettarne un’altra che la “completi”. Anticipo che la mia è una posizione mediana tra queste due.